Spunti di viaggio

La Fontaccia: alla ricerca del tempo perduto

La Fontaccia è un luogo di vacanza, ma è anche la casa di Samuele, Elisabetta e del piccolo Tommaso. Leggiamo la loro storia piena di entusiasmo e passione, ma anche di realismo e umiltà.

Adagiato sulle colline del Chianti Rufina, in Val di Sieve, La Fontaccia è un luogo dove a scandire il tempo sono le stagioni e la campagna. Il podere appartiene da oltre un secolo alla famiglia di Elisabetta, che oggi gestisce l’agriturismo insieme a suo marito, Samuele. Ma quella de La Fontaccia non è la classica storia dell’azienda agricola di nonni e bisnonni che si è aperta all’accoglienza turistica. La realtà è l’esatto opposto.

Il podere è stato abbandonato negli anni ’80 e da allora è andato incontro a un lento declino. Ma la volontà di recuperarlo “in qualche modo” non è mai venuta meno. Alla fine, un consiglio lungimirante ha portato sulla strada dell’agriturismo. La Fontaccia è nata per salvare un luogo amato e pieno di ricordi e ha finito per diventare la vita di Elisabetta e Samuele.

La grande casa colonica immersa tra boschi e uliveti è stata completamente ristrutturata nel segno della tradizione e nel rispetto dell’ambiente e i terreni sono stati bonificati e rimessi a coltura. L’azienda agricola è cresciuta un po’ alla volta e oggi produce un eccellente olio di oliva, mentre i due appartamenti e le tre camere accolgono gli ospiti in un’atmosfera calda e genuina.

La Fontaccia è un luogo di vacanza, ma è anche – soprattutto – la casa di Samuele ed Elisabetta. Tutto quello che c’è è un riflesso della vita dei due giovani gestori, che a gennaio del 2022 sono diventati genitori del piccolo Tommaso. A raccontarci la loro quotidianità, i sogni e le difficoltà con le quali devono fare i conti è stato Samuele. In un giorno di pioggia che ha messo in stand-by la raccolta delle olive, ci ha aperto le porte di casa e ci ha regalato una testimonianza piena di entusiasmo e passione, ma anche di realismo e umiltà.

 


Ci raccontate come è nata l’idea di aprire La Fontaccia?

L’idea di aprire un agriturismo non era un “sogno nel cassetto”, anche perché – banalmente – all’epoca eravamo troppo giovani per avere sogni così grossi. Però avevamo una certezza: un podere abbandonato in Val di Sieve della famiglia di Elisabetta.

Si cercava di evitare che andasse in rovina, ma il posto era molto grande: non c’era soltanto la casa, bensì tutti gli annessi agricoli. Andarci a vivere – peraltro dopo avere investito una cifra non indifferente per ristrutturare – non avrebbe risolto il problema di edifici come la stalla e il fienile, che cadevano a pezzi.

Dividere il podere tra gli eredi dispiaceva. Era già successo con altri beni di famiglia e si sapeva che avrebbe reso impossibile fare alcunché: La Fontaccia custodiva i ricordi d’infanzia di mia moglie e si meritava qualcosa di più. Abbiamo cercato una soluzione, poi un agronomo ci ha dato l’idea dell’agriturismo e i fondi della Comunità Europea hanno fatto il resto.

Io lo dico sempre, con la massima trasparenza: l’agriturismo ha preso forma per una ragione di utilità. Volevamo salvare il podere e abbiamo pensato che alla peggio avremmo venduto un bene in buono stato. Poi le cose sono andate avanti e oggi siamo contentissimi. È una vita molto impegnativa, ma non torneremmo indietro per nessuna ragione.

 

Avete scelto voi il nome o esisteva già?

La Fontaccia è il nome storico del podere. Abbiamo rischiato di cambiarlo, prima di capire che non era stato dato a caso dai bisnonni, ma è quello che si trova nei documenti storici conservati al Catasto Generale Toscano.

Di certo, questo posto è molto più antico di quello che sembra. Nel 1427, al Catasto Fiorentino, è citata una località “La Fonte”, che corrisponde più o meno alla zona dove siamo noi, anche se sotto una chiesa diversa. Per le dinamiche storiche di queste parti non è una cosa strana: tante fattorie sono state costruite a partire da strutture preesistenti o ruderi, vecchi di secoli e talvolta di millenni.

 

“Sostenibilità” è una parola chiave per la vostra struttura. Ci spiegate in che modo?

Qui a la Fontaccia ha tanti significati. C’è la sostenibilità energetica, che per noi è molto importante. Abbiamo pannelli termici che ci permettono di avere acqua calda per quasi tutti i mesi in cui siamo aperti, un grande impianto fotovoltaico e un sistema di recupero dell’acqua.

Poi c’è la sostenibilità umana. Mia moglie e io e ci occupiamo di tutto e a gennaio siamo diventati genitori del piccolo Tommaso. L’agriturismo è “ufficio” e “casa” e questo ha comportato che facessimo delle scelte, come chiudere alcuni mesi all’anno.

La Fontaccia è anche – ovviamente – un’azienda agricola e ciò significa sostenibilità di processo e di prodotto. In quest’ambito ricade la sostenibilità stagionale, ovvero il fatto che frutta e verdura non ci sono sempre, ma solo in alcuni periodi dell’anno.

In aggiunta a tutto questo c’è la sostenibilità sociale, che è una cosa nella quale io credo molto. Noi siamo a un chilometro esatto dal paese di Rufina, dove ci sono dei commercianti che sono veramente bravi in quello che fanno. Io mi fornisco da loro. Un esempio su tutti è il forno. Ma il discorso vale anche per il macellaio e per l’ortolano.

A volte le persone si stupiscono, ma se io dovessi andare di persona a prendere quello che mi serve dai vari produttori, passerei le giornate in auto. In più, quando un ospite ha bisogno di qualcosa o vuole comprare un prodotto che ha provato e gli è piaciuto, lo mando dove mi servo io e mi trovo bene.

 

Ci raccontate il progetto di recupero de La Fontaccia? Tu, Samuele, hai studiato architettura: c’è la tua mano nella ristrutturazione del podere?

Il cantiere è durato tre anni, ma io ho partecipato poco. Non solo perché all’epoca ero troppo giovane, ma anche perché la mia storia con Elisabetta era all’inizio e La Fontaccia era un progetto della sua famiglia. Io ho fatto per lo più da osservatore e posso dire che ho imparato molto.

Il mio coinvolgimento è aumentato in maniera graduale. Nelle fasi finali ho avuto modo di utilizzare un pochino di più le mie conoscenze e su una base già impostata ho fatto io alcune modifiche. Poi, insieme a mia moglie, mi sono occupato di arredare le stanze.

Qui era un magazzino: era pieno di mobili antichi, di attrezzi della campagna e di oggetti di uso quotidiano. Noi abbiamo deciso di recuperarli e di utilizzarli per i vari ambienti dell’agriturismo. Allo stesso modo, dove erano presenti, abbiamo voluto riproporre i colori che c’erano già.

I nomi delle camere rimandano proprio alle diverse tonalità con le quali sono tinteggiate, oltre che alle piante e ai fiori che crescono nelle vicinanze e al loro uso originale. Il prossimo appartamento – che ci piacerebbe aprire quest’anno, ma che dubito riusciremo – si chiamerà “Fienile” e il motivo è esattamente quello: lo stiamo ricavando dal vecchio fienile.

 

Oltre alla casa avete recuperato i terreni e avete impiantato un uliveto: ce ne parlate?

Per rispondere a questa domanda faccio una piccola premessa. Per aprire un agriturismo è necessario che ci sia un’azienda agricola. Ogni regione legifera a modo proprio, ma esistono delle regole generali. Per esempio, il numero dei posti letto è calcolato in base alla superficie coltivata, alla tipologia di coltura e ad altre variabili.

Quando siamo arrivati qui, c’erano 15 ulivi su un ettaro di terreno. Era un numero estremamente basso, che non ci permetteva di rientrare nel punteggio che ci serviva per avere le camere che volevamo. Così, per ovviare al problema, abbiamo piantato 200 ulivi.

Di solito, gli agriturismi prendono forma da aziende agricole che già esistono. Noi siamo un caso un po’ strano, perché abbiamo fatto il contrario. Nel corso del tempo ci siamo ingranditi e a gennaio di quest’anno, quando è nato nostro figlio, abbiamo messo a dimora altri 300 ulivi.

 

Perché proprio gli ulivi?

Gli ulivi sono una vera e propria passione, ma hanno anche un risvolto pratico non da poco. Non richiedono molte attenzioni e i momenti topici della produzione – la potatura e la raccolta – ricadono in quella che in questa zona si può definire bassa stagione turistica.

 

La produzione di olio è il “fiore all’occhiello” de La Fontaccia…

Nella zona dove si trova La Fontaccia c’è una produzione di olio extravergine di oliva eccezionale. I frantoi sono tutti tecnicamente e tecnologicamente avanzati e noi abbiamo i nostri due o tre di fiducia. Dopo la raccolta delle olive – che facciamo in prima persona, con grande cura – diventano i “custodi” del nostro prodotto e ci consegnano un olio che a noi soddisfa e piace moltissimo.

Facciamo vendita diretta e abbiamo clienti anche all’estero. Proprio l’altro giorno ho spedito qualche litro in Svezia e ora sto preparando dei pacchi per la Germania e il Belgio. Nel caso degli stranieri, si tratta per lo più di ospiti dell’agriturismo. A Firenze e qui intorno, invece, molte persone che comprano il nostro olio non sanno neppure che esiste l’agriturismo.

 

Sempre a proposito di olio, organizzate delle degustazioni: come funzionano?

Le degustazioni dell’olio sono per gli ospiti e gli esterni, ma al momento sono ancora in una fase “embrionale”. È un’attività che gestisco personalmente e alla quale tengo molto perché io stesso, anni fa, ho fatto un corso interessantissimo promosso da Slow Food.

Per prima cosa andiamo a visitare l’uliveto – dove faccio vedere e spiego le sette varietà diverse di piante che abbiamo – e poi procediamo all’assaggio. Ma attenzione: l’olio non va messo sul pane, bensì va bevuto, proprio come si fa con il vino. Per la degustazione si usano dei bicchierini di vetro blu, perché il colore non deve influenzare la percezione del gusto.

Illustro la tecnica di assaggio, poi faccio provare l’olio del supermercato e il nostro. A quel punto spiego le differenze. Non solo – banalmente – per quanto riguarda il sapore, ma anche dal punto di vista nutrizionale e della produzione.

 

A La Fontaccia c’è una cosa particolare, un frutteto di frutti antichi. Potete spiegarci cos’è?

Il frutteto di frutti antichi è nato un anno in cui la mosca dell’ulivo ha fatto dei danni enormi e non c’erano olive.

Avevamo del tempo a disposizione e ci è sembrata una buona idea diversificare e piantare delle varietà di mele, pere, fichi e via dicendo che sono sparite dalla grande distribuzione. Si tratta di alberi innestati su “basi” selvatiche: ci mettono un po’ a crescere, però sono molto robusti. Resistono anche agli attacchi degli animali selvatici e… a qualche errore di potatura.

Abbiamo preso contatto con un vivaio a Firenze specializzato in queste “piante antiche” e abbiamo scelto delle varietà tipiche della zona e di zone simili. Alla fine abbiamo messo a dimora 45 alberi per 35 varietà. È stato un esperimento: volevamo vedere quali piante potevano attecchire e produrre senza che dovessimo starci troppo dietro.

Eravamo inesperti, ma ora ho le idee più chiare. Se dovessi rimetterci le mani – e mi piacerebbe farlo – saprei cosa fare di diverso. I meli sono stati un disastro, anche i noccioli non hanno mai fatto praticamente nulla, mentre i susini hanno prodotto in quantità. Quest’anno erano letteralmente piegati sotto il peso dei frutti.

 

Olio, frutta fresca, un orto familiare e prodotti locali: ci parlate della cucina de La Fontaccia?

La cucina de La Fontaccia? Si mangia bene! Battute a parte, se ne occupa mia moglie, che è molto brava, ma non è una cuoca e ci tiene a precisarlo.

Il menù cambia tutti i giorni, in base agli ingredienti a disposizione. Per questa ragione, non è detto che a tavola ci siano sempre i capisaldi della cucina toscana. Proponiamo una “cucina espressa” – nel senso che è tutto preparato sul momento – e i piatti sono semplici.

La pasta a volte la facciamo noi, a volte no: dipende dal tempo. Quando abbiamo bisogno di quella fresca, facciamo affidamento su un micro-pastificio che c’è in paese, gestito da due ragazzi giovani con delle belle idee. Come pasta secca, invece, prendiamo una marca toscana di qualità superiore, che utilizza il germe di grano. Ha un modo di sposarsi con l’olio… eccezionale. La si può fare in bianco e realizzare un piatto gourmet.

 

Quali servizi di ristorazione proponente?

A La Fontaccia diamo la colazione e la cena. La cena è solo per gli ospiti e solo su richiesta: abbiamo bisogno di saperlo per eventuali intolleranze e allergie e per organizzarci. In base al numero dei commensali e alle loro esigenze, io raccolgo la verdura nell’orto e faccio la spesa in paese e mia moglie cucina un pasto di due o tre portate.

La colazione richiede una preparazione diversa, perché abbiamo un’esperienza di turismo internazionale e il buffet deve rispondere a tante abitudini e necessità differenti. Per chi desidera il salato, abbiamo pecorino, prosciutto, frittate e – in stagione – l’insalata di pomodori (che piace anche a chi fa la colazione dolce). Poi ci sono cereali, yogurt e frutta. Non manca mai neppure una torta fatta in casa.

 

A La Fontaccia avete le galline. Il vostro piccolo allevamento ha una storia curiosa: ce la raccontate?

La genesi di queste cose è divertente. Noi abbiamo imparato a non dire mai di no – anche a nostre spese – e così è nato il nostro allevamento.

La Comunità Montana (che oggi non c’è più) regalava due galline ovaiole a chi aveva un giardino ed era interessato e forniva i rudimenti di base e un vademecum per prendersene cura. Ben presto le galline sono diventate quattro, ma il primo posto dove abbiamo messo il pollaio si è rivelato poco fortunato. Tra faine, volpi, lupi, il cane e il gatto del vicino e il nostro cane, purtroppo abbiamo avuto diverse perdite.

Ora invece siamo stabili. Abbiamo un bel pollaio con la porta automatica – che ha ridotto drasticamente il numero di “incidenti” – e stiamo pensando di metterne un altro. Abbiamo due galli e dieci galline, che ci danno uova a sufficienza per le colazioni. L’idea è di arrivare almeno a una ventina di galline e di diventare indipendenti per la produzione di uova.

Purtroppo l’inverno scorso è stato difficile, perché una faina ha attaccato il pollaio mentre la porta automatica non funzionava e ha ucciso la metà delle galline. È una cosa che capita. A quel punto si ricomincia ed è tutto uno scambio tra vicini: c’è chi ti dà le uova fertili, chi i pulcini, chi deve “piazzare” un gallo… è divertente.

 

Proponete delle attività agli ospiti dell’agriturismo?

I primi anni abbiamo provato a proporre alcune attività, come il corso di cucina, la degustazione dei vini, l’esperienza di venire con noi a comprare il formaggio dal pastore. Poi abbiamo deciso di lasciare agli ospiti l’opportunità di riappropriarsi del loro tempo.

Uno dei mali del mondo moderno è che si sta sempre a fare cose che si crede di dover fare, ma per le quali non si ha un reale interesse. Se uno va a cavallo va bene, ma se passa tutto il pomeriggio sull’amaca a guardare le foglie mosse dal vento sembra che abbia perso tempo. E in questo, i social hanno di sicuro un peso.

Ci sentiamo tutti in colpa – io per primo – a stare fermi senza fare nulla. Ed è proprio questo quello che offriamo alle persone che vengono qui: la possibilità di smettere di capitalizzare il tempo. Qui gli stimoli ai quali sono abituate non ci sono, ce ne sono altri ai quali si sono disabituate.

 

Siete diventati genitori da poco: com’è cambiata – se è cambiata – la gestione del quotidiano?

Un anno duro come questo penso di non averlo mai avuto. È stato di sicuro molto positivo, perché abbiamo avuto tanto lavoro e ce n’era bisogno dopo due anni di pandemia. Ma il fatto è che in quei due anni di “sospensione” abbiamo puntato forte sull’azienda agricola, approfittando del tempo extra e pensando che non finisse mai.

Poi le cose sono tornate alla normalità e a gennaio è nato il piccolo Tommaso. Siamo felicissimi, ma è davvero “tosta”. Se prima in due riuscivamo a fare più o meno tutto, spesso fuori orario, adesso abbiamo bisogno di aiuto. Quest’anno abbiamo assunto alcune persone per farci aiutare, anche dal punto di vista agricolo. È un cosa che fino a ora non era stata necessaria, se non in maniera saltuaria.

 

C’è qualche nuovo progetto in cantiere?

Tra le follie che ci sono venute in mente in pieno Covid c’è stata quelle di prendere in gestione una vigna. È un mezzo ettaro di terreno di una persona anziana che non ce la faceva più a starci dietro.

La vigna è davvero molto impegnativa. Richiede tantissimo lavoro e la nostra presenza in piena stagione turistica: è una grossa sfida. È un impianto vecchio, che ha piante che producono tanto e piante che non producono niente, quindi sarà necessario fare un rinfoltimento. Una cosa che chi è del settore sa fare, ma che per me è tutta da imparare.

Io conto di avere le nostre bottiglie di vino in due o tre anni, forse quattro. Per adesso vendiamo l’uva a dei produttori dai quali ci serviamo.

Qui ho conosciuto persone – della mia età o di poco più vecchie – che hanno aziende agricole da generazioni. Queste persone hanno tutto quello che a me manca: esperienza, attrezzature, spazi. Vedremo se fare una produzione interna o se appoggiarci a chi è del mestiere e lo sa fare bene. Le cose, a volte, conviene farle fare: non è una sconfitta, anzi. Se si mantiene il controllo, è un vantaggio.

 

La Fontaccia si trova in Val di Sieve, in una zona di grande ricchezza e bellezza naturalistica e in una posizione strategica per visitare alcuni tra i più suggestivi luoghi della Toscana. Quale meta o attività nei dintorni consigliate di non perdere?

Dipende molto dalla stagione. Per i periodi dell’anno non troppo caldi, io consiglio di esplorare i dintorni a piedi o in bicicletta. Qui abbiamo una rete di sentieri eccezionale. I tracciati ricalcano per la stragrande maggioranza dei casi antiche viabilità che sono state abbandonate.

Io conosce bene la rete sentieristica e do tutte le informazioni necessarie per fare una bella escursione, più o meno lunga e più o meno impegnativa, a seconda degli interessi e delle capacità. Se uno è allenato, con la mountain bike ci si diverte tantissimo. Diversamente, suggerisco le biciclette con la pedalata assistita: qui in zona ci sono alcuni posti dove è possibile noleggiarle.

Quando fa caldo, invece, consiglio la Riserva Naturale Biogenetica di Vallombrosa. È un posto che ho nel cuore e si trova a una mezzoretta d’auto da qui. È sede del Corpo Forestale dello Stato e al suo interno ci sono una bellissima abbazia e un bosco straordinario. Tra gli alberi che crescono a Vallombrosa si trovano essenze non autoctone come gli Abeti di Douglas e tantissimi abeti bianchi, che sono sì tipici dell’Appennino, ma non in quella quantità. Lì ce ne sono molti perché sono stati piantati per la legna.

Il bosco lascia a bocca aperta e la temperatura è sempre di qualche grado più bassa, una cosa che nelle estati molto calde fa la differenza.

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